17/10/11

Joyce Carol Oates, Sylvia Plath, l'Io, la poesia, la prosa

Tu non mi conosci, e poi un saggio, L'agonia del romanticismo: la poesia di Sylvia Plath, una rilettura quest'ultima - inevitabile come quasi tutte le letture - che si porterà dietro ancora una scia di gesti, di ritorni del pensiero a idee e visioni appuntate nella memoria sotto l'effetto di una sostanza opprimente e nebulosa, qualcosa di simile a un sogno lacerante lasciato dai Diari di S.P. Il saggio scritto da Joyce Carol Oates nel 2004 e pubblicato ne I capolavori di Sylvia Plath (Mondadori Oscar grandi classici), mi ha naturalmente condotto ai racconti, i racconti di nuovo al saggio.
Il saggio ha un'impostazione schematica,  classica - o come immagino dovrebbe essere un saggio letterario impostato nella maniera classica -  e procede seguendo un metodo rigoroso - citazioni di brani della Plath in parallelo con autori precedenti, contemporanei, più recenti - che vuole sgombrare il campo da ambiguità e sentimentalismi, promettendo lucidità e distacco. In apertura una serie di propositi e finalità, prima di ogni altra cosa - e suona già come trincerarsi dietro un'intenzione - non subire il fascino paludoso di una scrittrice che è stata ed è probabilmente tuttora vista come martire di qualcosa di oscuro, sebbene non lo sia meno della poesia lirica in quanto tale. Eppure proprio questa elencazione di premesse e di paletti, decidere di intraprendere un viaggio partendo da una dichiarata posizione di forza emotiva, fanno di questo saggio qualcosa di estremamente personale, perfino intimo; il distacco cercato è già indebolito dall'appartenenza alla scrittura. L'autrice non vuole certo sminuire il valore letterario della Plath rifiutandone la veste di martire - "è qualcosa di più prezioso, naturalmente" -  quanto interporre un diaframma, prendere le distanze dalla visione che S.Plath aveva della propria personalità come essere umano e poeta, una visione secondo J.C.Oates impregnata di idee di un'epoca romantica "ormai conclusa". Un'intenzione sottolineata così tante volte, più o meno chiaramente qua e là nel saggio, da sollevare più di qualche inquietudine.
Le idee sull'arte e l'artista - i presupposti "che l'artista crei e sia creato dalla propria arte, che l'io - specialmente l'Io della poesia lirica - sia una personalità che consegue una sorta di autonomia non solo dalla vita personale dell'artista ma anche dalla graduale progressione rappresentata da ogni singola poesia; che la personalità autobiografica proposta dall'artista sia un mezzo per saggiare la realtà e che il suo successo o fallimento o disorientamento finiranno per condizionare la vita personale dell'artista; che il grado di accettazione, di rifiuto o di distacco empatico che il pubblico assume nei confronti di una data azione tragica finirà con il condizionare la vita collettiva di un'epoca "- sono forse più interessanti di quelle sulla funzione della critica letteraria, che non è "semplicemente di sezionare più o meno spietatamente, di attaccare o celebrare, bensì di chiarire come l'opera di un artista significativo contribuisca a spiegare il suo e il nostro tempo".
L'isolamento e la lontananza di Sylvia Plath da "un'organizzazione di individui isolati collegati materialmente l'uno all'altro - forse, di fatto, ammassati, ma non "insieme", non sostanzialmente uniti", è un punto di vista che deriva dall'ossessione per sé stessi e per la propria coscienza, dalla paura di tutto ciò che è estraneo; Oates la definisce una forma di regressione infantile. L'Io romantico è enorme, non ancora disgregato nel caos della modernità, è grande ma fuori posto, eternamente escluso dall'universo, meno che mai compreso nella natura. La natura è invidiata e l'intelletto giudicato inesorabilmente inferiore, una colpa da espiare: non c'è traccia di fiducia nell'umanità, nè in una spiritualità da cui attendere una qualsiasi forma di perdono. "Venerare la natura muta come superiore all'umana capacità di creare e usare il linguaggio porta prevedibilmente al silenzio; e questo silenzio spinge l'individuo alla morte, perchè la negazione del linguaggio è suicida e si paga con la vita."
La solitudine e la paura dopo la disgregazione dell'Io e la scomparsa della Natura oggi sono ancora più gonfi di angoscia, come in certi scrittori contemporanei (Pynchon,  Barth e aggiungo D.F.Wallace) che "esprimono la confusione dell'Io che si ritiene - forse perchè gli è stato detto così spesso - in qualche modo fuori posto nell'universo: una creatura meccanizzata se ha la follia di avventurarsi nella Natura; una creatura troppo naturale nel paradiso meccanico urbano che ha ereditato ma  che non ha contribuito a progettare".
Mentre leggo l'intervista di David Lipsky a DFW non riesco a pensare all'Io di Wallace come a un Io disgregato; al contrario mi sembra "poeticamente", ingombrante; di certo confuso e spaventato, e stremato perchè non ha ancora rinunciato a tentare di comunicare (con risultati disastrosi come lo sono certi dialoghi indimenticabili di Infinite Jest in cui ciascuno porta avanti un discorso completamente scollegato dall'altro), di capire come muoversi nel mondo e tra altri esseri di cui non nega affatto l'esistenza e dai quali probabilmente non si sente diverso nella sostanza (da qui il terrore di cedere il controllo alla parte di sè che riconosce in chi disprezza), ma diviso da qualcosa di insormontabile, invincibile: le maschere, i veli, le deformità, i giochi di scacchi, i gorghi mentali, gli schemi, le sovrastrutture, tutto ciò che ci impedisce di vedere davvero chi abbiamo davanti, in un crescendo di terrore, di paralisi interiore e ancora di estrema insanabile solitudine in cui diventa difficile distinguere - perfino per uno scrittore di prosa senza dubbio coinvolto se non intrappolato dal mondo reale - il bene dal male. Ecco perchè la fiducia che la Oates ripone nella prosa e nella sua capacità di proiettare all'esterno l'Io dello scrittore, probabilmente il proprio Io, risultando vincente sul poeta eternamente concentrato su sè stesso, è toccante. Mentre dichiara di non aver intenzione di affermare l'inferiorità della poesia - "un'arte fortemente concentrata su se stessa" -  a vantaggio della prosa - "un'arte con maggiori implicazioni sociali" - , appare chiaro quanto il proprio posto nell'universo l'autrice del saggio senta di averlo sempre avuto, di svolgere (scrivendo) una "funzione del tutto naturale" e di non comprendere per questo i poeti romantici: "Perché ai poeti romantici non viene mai in mente di avere lo stesso diritto di ogni altra creatura di esistere nell'universo (...)? O che l'immaginazione adulta è superiore all'immaginazione degli uccelli o dei bambini piccoli? Nell'arte questo può portare al silenzio; nella vita, al suicidio. (...) Che cosa c'è in questa bizzarra forma d'arte che, se non viene liberato dalla musica, tende a ripiegare all'interno sul poeta, avvolgendolo nelle sue spire? (...) I poeti lirici, nella grande maggioranza dei casi, esplorano infinitamente il proprio essere, come pazienti in perenne terapia psicanalitca (...).
Tu non mi conosci dimostra che l'Io di J.C.Oates esiste ed è legato al mondo e agli esseri umani unicamente per mezzo di qualche forma di trauma psichico, dalla violenza, dal sopruso fisico e psicologico, dalla menzogna. La teoria di  padri, figli, fratelli,  mariti che sfila da un racconto all'altro fa pensare che non esista alcun universo al di fuori di un legame all'interno della famiglia, e che nessun rapporto e nessun individuo in questo mondo chiuso o al di fuori di esso abbia da dire qualcosa al di là del dolore, inflitto e subito più o meno coscientemente ma senza via d'uscita, almeno fino al "momento della verità" (il fuoco fa da sfondo a molti racconti). Ogni esistenza si gioca nel momento in cui il segreto si svela, e la presa di coscienza è il nodo che si scioglie e la libera come in un classico meccanismo freudiano.
Resta la dimensione piatta di un orizzonte di carta verso il quale le figure liberate - forse non realmente ma soltanto dal peso di un passato irrisolto - si muovono, più leggere ma anche inerti, svuotate.

2 commenti:

Bamborino Ltd. ha detto...

Ho avuto qualche difficoltà con le poesie di Sylvia Plath, ma per la poesia moderna credo di essere un caso disperato, nel senso che malgrado io mi impegni ogni volta non cela faccio, quando non capisco niente, non capisco niente, e allora lascio lì. Ma ho anche il romanzo, "La campana di vetro", e pur non avendolo ancora letto, devo dire che la prima pagina è uno dei più meravigliosi scritti che mi siano mai venuti in mano.

Elena ha detto...

Se la natura della poesia è di per sè oscura (e fa paura, e per molti anni non sono riuscita a guardarla nemmeno da lontano, classica o moderna che fosse), la poesia di Sylvia Plath è uno spaventoso intrico di architetture, un elaborato labirinto pischico e linguistico che si percepisce studiato per far perdere chi legge. Ho amato visceralmente i suoi Diari e solo dopo mi sono avvicinata alle poesie, a La campana di vetro e alle altre prose grazie anche al saggio di Joyce Carol Oates che forniva più di qualche interpretazione possibile, Ma ho come la sensazione di non aver concluso che un piccolossimo frammento dell'esplorazione di questo universo sterminato.