02/08/09

Insonnia



(Hieronymous Bosch, Estrazione della pietra della follia, 1480, Madrid, Museo del Prado)

"Questa è la mia vita. Cioè lo era quando riuscivo a dormire. Più o meno sempre la stessa, ogni giorno che passava. Tenevo una sorta di diario, ma se mi dimenticavo di scriverci per due o tre volte di fila, non riuscivo più a distinguere una giornata dall'altra. Avrei potuto scambiarne l'ordine, non l'avrei nemmeno notato. Ogni tanto mi chiedevo che razza di vita fosse quella. Ma non per questo mi sentivo insoddisfatta. Ero solo stupita. Del fatto che le mie giornate fossero tutte uguali. Che le mie orme venissero spazzate via dal vento in un baleno, prima che avessi il tempo di riconoscerle. In quei momenti, mi guardavo allo specchio del bagno. Mi fissavo per un quarto d'ora di fila. Facevo il vuoto nella mia testa e non pensavo a nulla. Osservavo il mio viso in silenzio come se fosse un semplice oggetto. Finché a poco a poco si separava da me. Come se la sua esistenza disgiunta fosse contemporanea alla mia. Allora riconoscevo che il presente era quello. Nessuna relazione con le orme. In quel momento la realtà ed io eravamo due entità silmultanee, contava solo quello. Adesso però non dormo più. E ho anche smesso di tenere un diario. (...) Ovviamente ogni tanto c'era qualche cambiamento. Veniva mia suocera e cenava con noi. La domenica andavamo tutti inseme allo zoo. Mio figlio ebbe una terribile diarrea. Tuttavia nessuno di quegli avvenimenti riusciva a scuotermi. Come un vento silenzioso mi passavano intorno e se ne andavano. Parlavo del più e del meno con mia suocera, preparavo la cena per quattro, scattavo una fotografia davanto alla gabbia dell'orso, tenevo al caldo la pancia di mio figlio, gli facevo prendere la medicina. Nessuno si accorse del mio cambiamento. Vivevo senza dormire, leggevo uno dopo l'altro libri su libri, la mia mente si trovava a centinaia d'anni e migliaia di chilometri dalla realtà, ma nessuno vi faceva caso. (...) Poi mi accorsi che ero diventata più bella di quanto pensassi."

(Murakami Haruki, L'elefante scomparso e altri racconti, Sonno)

2 commenti:

Gioacchino ha detto...

Il significato delle parole e dell'esperienza è chiaro e lascia intendere anche che potrebbe esservi qualcosa di peggiore come risultato di questa lunatica solitudine. Quasi sempre c'è un'immagine di noi stessi davanti ai nostri occhi, che siamo in compagnia o da soli: uno specchio ci accompagna ovunque andiamo, qualunque cosa facciamo. Gli specchi, si dice, riflettono solo le apparenze. Ma quando la bellezza affiora in superficie e lo specchio ce ne rende una testimonianza è come se vedessimo concretizzarsi un'idea. Dopo tutto, credo che siamo idee ambulanti (non in senso platonico): è giusto cercare in uno specchio una conferma di ciò che siamo.
Nel racconto la donna dichiara di sentirsi radicata nel presente solo al costo dell'astrazione. Questo è un punto di vista interessante.

Elena ha detto...

Ciao Gioacchino.
Tutto il racconto ruota attorno a questo in effetti, al trascendersi, guardare se stessi e la propria vita dal di fuori, come fossero oggetti collocati in uno spazio e un tempo precisi. E' un tentativo di bloccare se pur temporaneamente il meccanismo che fa scivolare via le proprie orme. Il dilatare e amplificare in questo modo la propria coscienza però sembra produrre come effetto neanche tanto collaterale quello di allontanarsi sempre più dalla realtà, che perde progressivamente spessore e valore quanto più evolve il processo di autocoscienza. La cosa più inquietante e verosimile, è che nessuno nella vita reale è in grado di rendersi conto di un simile processo di straniamento progressivo e irreversibile. Mi chiedo se esista, a processo innescato, un modo di sanare questa frattura, o forse solo di trovare un ponte che permetta alle due dimensioni di comunicare in misura accettabile.