27/07/09

La parte

Mi piacevo con quelle due piccole ciocche schiacciate sulle tempie. Altre si sparpagliavano scure e spente qua e là disordinatamente intorno al pallore generale.
Non riuscivo più a ricordare nemmeno vagamente l'ovale nascosto per metà dalla lunga frangia obliqua, quasi non mi riconoscevo nel languore di alcune immagini più o meno vecchie davanti alle quali altri si soffermavano tacendo per una ridicola quanto inutile discrezione, rimpiangendomi in segreto, infilati in un vicolo cieco di retorica in cui non potevano rendersi conto di cadere (ignoravano completamente di confrontarmi con un'entità che non mi apparteneva più da secoli e che ora mi era più estranea di una vera estranea; verso la quale ero indifferente a tal punto da non poter nemmeno sospettare un rifiuto a livello inconscio): ingenui, increduli del fatto che quella ragazza la cui morbidezza sembrava ripercuotersi persino sulla carta fotografica o nella luce del monitor, a dispetto di ciò che si trovavano davanti oggi, fossi indiscutibilmente io.
Restai immobile fino a sentirmi del tutto indefinita.
Lo specchio rifletteva due occhi leggermente fuori proporzione, due iridi dal nero troppo denso: sembrava colare, leggermente sulle estremità esterne verso il basso, un effetto coerente con la matita nera spalmata e rispalmata sulla palpebra inferiore.
La bocca. Mai stata molto carnosa, appariva regolare, seria. Le due punte ben definite sul labbro superiore trasmettevano un'idea di orgoglio lievemente provocatorio che si disperdeva soltanto nel ridere.
Niente rossetto, l'idea che volevo sentirmi addosso era da sempre il bianco e nero.
Scesi le scale, Roby non era ancora arrivata. Aspettai un pò. Dopo dieci minuti salii in macchina e mi diressi verso il Duke's. Sapevo che l'avrei trovata lì. Venti minuti per arrivare, dieci per scovare la parodia di un parcheggio in mezzo a due auto stinte, lungo un banco chiuso puzzolente di mercato. Era quasi buio ma il cielo ancora chiaro aveva strani effetti da grande schermo, come la fiamma traslucida di un enorme accendino.
Entrai, l'oscurità sapeva di cartapesta. Da più vicino la vidi mentre fissava una schiuma compatta, una specie di neve sporca di città dentro un bicchiere. Alzò lo sguardo, indecifrabile, mi aveva già privata del bianco. Dopo qualche minuto ero seduta ad un tavolo, inghiottita dal fumo, da un bicchiere, da lei. Parlava poco, di domande neanche l'ombra; eppure l'idea stessa di quell'incontro era una sola misteriosa domanda: mi costringeva ad uscire allo scoperto con una tecnica disarmante, involontaria. Del resto una serata del genere poteva avere più senso di qualunque altra serata con chiunque. A generarlo non era un passato troppo lontano, che ci aveva scolpito dentro una matrice a cui riferire senza alcuna possibilità di successo ogni occasione futura che potesse ricadere per similitudine sotto la definizione di amicizia. Era piuttosto un non-discorso ben collaudato tra noi che ci liberava da qualunque obbligo di tentare un vero dialogo, se è vero un dialogo costruito secondo le regole umane verbali e di mimica facciale-corporale universalmente riconosciute come "normali". Avremmo potuto tacere, non guardarci, oppure guardarci per minuti e poi parlare distogliendo lo sguardo, fare pause lunghe o corte o nessuna pausa, alzarci in qualunque momento e andare via senza alcuna conseguenza irreversibile. Tutto questo era una certezza non dichiarata. Ma la presenza di altre persone rompeva facilmente questo equilibrio, depredava libertà. In quel caso era necessario calarsi d'impegno in una parte. In una qualunque in teoria, in realtà nell'unica o nelle uniche possibili facendo i conti con il proprio personale grado e tipo di paura. Al tavolo eravamo sole, e c'era Roman che serviva da bere. Due uomini e una donna appoggiati al bancone avevano salutato Roby entrando.
- Allora, ci siamo Roby. Dovremmo almeno salutarci.
- Si, credo di si. Fallo tu.
- Ciao Roby. Posso sapere a cosa devo questo incontro misterioso? - Cercavo di spruzzare in giro ironia, era l'unica soluzione che in quel momento riuscivo ad immaginare per recuperare il mio spunto iniziale, già in calo.
- Niente di che. Volevo sapere com'è. Tutto qui. E poi volevo almeno salutarti. Roman, me ne porti un'altra? Per favore?
- Ah. Com'è cosa?
- Mi sa che sono incinta.
- Ti sa?
- Al novanta per cento lo sono. Senti mi dici com'è?
- Vuoi sapere com'è essere madre? O cosa resta di te quando sei madre? E perchè salutarmi, parti?
- Cosa resta...
- Intanto dovresti cercare di sapere con certezza se lo sei. Non riesco a parlare di qualcosa di completamente incerto.
- Piuttosto ridicola questa affermazione, fatta da te. Però un pò la capisco. Lo sono.
- Stai mentendo Roby, smettila.
- Cos'è, ti sembra impossibile? Dov'è l'incongruenza? Nei miei confusi gusti sessuali? O?
Risi di gusto deglutendo un sorso di birra spumosa. - Sai bene che le preferenze sessuali non c'entrano per niente. Abbassa gli scudi con me, Roby. Sto solo dicendo che non ha senso discuterne così. Hai fatto le analisi?
- Ho fatto il test a casa. Lo sono.
Cercai di non guardarla.
- Ok. Non starò qui a decantarti la meravigliosa esperienza della procreazione, so come la pensi. Come la pensavi almeno. Per me è un viaggio iniziato bene, l'ho scelto, mi ha cambiato, mi cambia. Ne gioisco continuamente, ne soffro continuamente. Quello che c'è da dire è che non si riesce nemmeno a desiderarlo un riavvolgimento del nastro vivendo questa cosa. Anche in quei momenti in cui... anche soffrendone soltanto, anche quando vivi quei minuti bui di terrore senza mai gioirne.
Silenzio. Pupille strette nella vernice spaccata del tavolo. - Quello che resta è molto, ma poi non lo riconosci. Non è più ciò che era. Non puoi nemmeno ricordare davvero com'era, perchè quando provi a farlo lo fai con una te che si è estesa e il ricordo è falso: un ora troncato per farlo diventare un prima, non funziona.
Non so cosa ascoltò Roby di tutto questo perchè il suo sguardo non si era mai alzato verso il mio, non disse nulla, nè fece altre domande. Non fumava quindi i suoi gesti diversivi si concentravano sul bicchiere. Roman ci portò un'altra birra e sedette al nostro tavolo insieme a due ragazzi che non conoscevamo. Restarono con noi, mentre lui, Roman, continuò a servire sedendosi quando poteva. Ridemmo e bevemmo dicendo cose sciocche e parlando di musica fino a tarda notte. Poi ci salutammo come due isole vicine, guardandoci solo un pò più a lungo del normale.
Dopo due settimane trovai una chiamata sul cellulare, un numero sconosciuto. Richiamai per sapere chi fosse, era la madre di Roby. Mi disse che Roby era partita per Berlino e che aveva lasciato un quaderno per me, se potevo passare a prenderlo. Dissi che sarei passata il venerdì successivo e così feci. Quando si aprì la porta la donna bionda di un tempo aveva lo sguardo spento, il volto gonfio e molle di anni di tranquillanti. Mi disse di entrare ma sperava dicessi di no, e io l'accontentai volentieri. Non le chiesi niente perchè non sapevo cosa Roby le avesse raccontato, e anche perchè quegli occhi vuoti e soli mi facevano paura. Rimasi un pò sulla porta composta e in imbarazzo con i miei capelli corti, i miei occhi truccati, la mia magliettina nera. Avrei voluto vedere la stanza di Roby e se c'era ancora sedermi sul letto più scomodo del mondo dove ci eravamo rifugiate a parlare ogni giorno per cinque anni molti anni prima, ma fui contenta di non poterlo fare. Salutai da lontano il volto gonfio senza occhi, tenendo il diario in mano, e tornai a casa. Lo lessi quattro ore dopo. Procedevo a balzi, leggevo dei pezzi, saltavo brani, sceglievo frasi a caso, voltavo pagine cercando qualcosa senza sapere cosa.


(Dal diario di Roby)

"Sto annaspando nelle sciocche romanticherie di Simona. Sembra quasi che stia giocando alla diversità. La sua sembra noia ebbra di trasgressione. Domani le parlo."

"Roman qualche sera fa mi ha presentato Mirko. Un gran bel ragazzo. Non capisco cosa possa avere a che fare con me uno che gioca a hockey quattro giorni su sette e trascorre gli altri tre dormendo fino a mezzogiorno per poi ubriacarsi la notte. Uno che dice: che ficata ho prenotato a Formentera. Comunque abbiamo fatto l'amore."

"Voglio chiamarla, devo capire. Non so come invitarla, sono anni che non la sento. Lei saprebbe guardarmi in quel modo, al di là degli occhi. Mi risparmierebbe tutte quelle parole. Non sa niente, nè lo saprà adesso. Lo saprà dopo".

"Mirko, dio mio che tristezza. Mi ha chiesto di andare con lui a Sorrento. A fare cosa? Tutto ciò che abbiamo fatto finora insieme o che faremo mai, si può fare anche qui a casa mia."

"Al lavoro sono diventata schizofrenica. Rispondere al telefono è un incubo, la voce deve uscire, e in fretta. Tutto ciò che dentro di me urla e si dispera, fuori deve compostamente illustrare, spiegare, rassicurare, possibilmente con criterio. Mi chiedo chi pensa di rassicurare ME".

"Credo che Mirko non mi sopporti più. Anche perchè non facciamo più l'amore, io non ci riesco. Penso sempre a quel dolore di mina esplosa nel ventre, alle parole tranquille e strabiche di quel medico. Non credo che mi richiamerà venerdì, sarebbe meglio perchè non risponderei. Quando si mette la maglietta nera mi sembra di non poterne fare a meno. Ha la pelle chiara, mi toglie il sonno. "

"Simona continua a lasciarmi messaggi, e-mail, chiamate. Non ha capito che non voglio davvero più vederla nè sentirla. Eppure sa come sto, e perchè".

"Se l'avessi già chiamata le avrei chiesto di quella mostra di Chagall. Ma non so ancora cosa dirle, nè come farlo. C'è questo strano rumore dentro di me, non sento bene cosa c'è da capire, e poi da dire. Forse domani la chiamo. La mina esplode ancora ogni tanto, ma quella che fa più danni è quella nella testa. Il fatto è che non mi interessa altro: che lei sappia, ma senza dirglielo. Se fosse qui, lei mi scriverebbe. Se avessi il suo indirizzo le scriverei io e sarei salva. Ci siamo sempre salvate così".


"Scusami E. Non ho avuto il coraggio di pronunciare quella parola, perdonami. Non dovrebbe spaventarmi, in fin dei conti fino a poco tempo fa pensavo che nessun uomo mi avrebbe mai più toccato. Ma non è così semplice, scusami ti ho mentito, quando il medico che mi ha operato poi mi ha detto quella cosa, boh si deve essere rotto qualche pezzo dentro di me, quella parola secca e arida, quella parola di cosa vecchia andata a male, stantia, l'ha buttata dentro il mio orecchio come si butta la spazzatura, quella parola lì, io volevo dirtela, ma non sapevo proprio come e allora ti ho chiesto com'era, non ho saputo farlo, dirtelo veramente. E Roman lui a modo suo ha provato ad aiutarmi, forse mi ama anche, ma come poteva riuscirci con Mirko... tu perdonami, non credo che tornerò, però puoi farcela anche da sola, ti ho visto, vai forte, mia madre non lo sa di quella parola come delle mie cose di sesso, non sa niente, hai visto come sta, è così da quando mio padre, ti ricordi anni fa, non lo sa di quella cosa atroce quella parola asciutta di morte, non so dirle più nulla da secoli, non sa di tutto questo deserto, allora tesoro mio te lo dico così senza più scuse cos'è, quella parola, cosa potevo fare, solo andare: sterilità"

Chiusi il diario nel mio cassetto delle mutande, sotto a tutto.

Nessun commento: